Cucina di carnevale
Breve e freddo l’inverno nel centro della Grecia duemilasettecento anni fa. Esiodo, il poeta contadino, ammonisce: "Guardati! Funestissimo è questo mese invernale, funesto agli animali, funesto agli uomini. Da’ ai buoi metà cibo, agli uomini invece maggiore sia il nutrimento...” Tavole abbondanti e fantasiose, infatti, da millenni allietano i giorni del solstizio d’inverno e del rassicurante sole che torna.
"Quando, poi, Zeus avrà fatto passare sessanta giorni invernali dopo il solstizio, ecco l'astro di Arturo...": è già avanti il cammino verso primavera e nuove feste ne segnano l'avvento.
"Ad Atene... si tenevano a fine febbraio e duravano tre giorni: il primo giorno si festeggiava... lo spillare il vino nuovo...; il secondo giorno, ‘festa dei boccali’, i bevitori gareggiavano fra loro; il terzo giorno era detto ‘festa della marmitta’ perché si esponevano marmitte con legumi cotti in offerta alle anime dei defunti che si credeva allora provenissero dalla terra" (S. Resnik, Dionysos, Verona, 1983). Secondo altri nelle pentole ci finivano cereali e miele cotti insieme.
Nel giorno ‘dei boccali’ si teneva la sfilata con l'arrivo del dio ‘che vien dal mare’: una barca su quattro ruote di carro, Dioniso con grappolo d'uva, due satiri nudi con flauto, parecchi personaggi probabilmente mascherati, un toro da ‘festeggiare’, suonatori di flauto e portatori di ghirlande.
Il carnevale tradizionale è festa di contenuti simbolici, ma con mensa più semplice, che tralascia le infinite risorse della terra appenninica. Precedendo l’anti-festa quaresimale, la mensa del carnevale brama abbondanza e trova abbuffata, ma non ricerca la varietà natalizia o pasquale.
Ci si concentra sui dolci. Forse perché, mimando le preistoriche matrici del pasto selvaggio, si vuol cibo alla mano e da piazza. Forse per "la paura della fame, il terrore di non avere scorte per affrontare l’inverno e soprattutto la terribile primavera (magari bellissima per i pittori e i poeti, ma davvero terrificante per i contadini e soprattutto per i montanari)..." (G. Rebora, La civiltà della forchetta, Bari, 2000).
Comunque sia, a carnevale son soprattutto dolci. La cicerchiata, le frappe, gli amaretti e le ciambelle. Dolci comuni a vari luoghi, che si arricchiscono con altri dolci secondo disponibilità ed estro.
Il più caratteristico è la cicerchiata, versione abruzzese, molisana e marchigiana degli struffoli della Civitanova dei coloni greci (Neapolis, detta anche Napoli), che si ricollegano alla tradizione della ‘marmitta’ ateniese.
Nella versione più semplice si preparano preliminarmente mandorle leggermente tostate (tra 100 e 200 g ogni mezzo chilo di farina, a piacimento). S’impasta farina di grano tenero con uova (un uovo ogni 100 g. di farina più 1-2 uova) fino ad avere una pasta morbida. Si ricavano cordoli dello spessore di un dito (più mignolo che pollice), si tagliano in tante palline o ‘ceci’. Si friggono velocemente in olio e si dispongono su carta assorbente, ad eliminare eccessi di grasso. In una pentola grande si versano miele (all’incirca la stessa quantità della farina), le mandorle e un pizzico di cannella, tritata finemente o in polvere. Si scalda a fuoco basso finché il miele si scioglie e diventa dorato. Si fanno piovere i ‘ceci’ di pasta fritta, mentre si gira accuratamente, perché il tutto sia ben distribuito. Poi si versa su ripiano di marmo (in mancanza, su piatto molto largo) e si modella aiutandosi con due mezzi limoni (l’impasto scotta!). Si fa raffreddare.
Il miele deve assicurare coesione, consentendo però di piluccare, con bravura, qualche acino. Se, per rompere la cicerchiata, serve il martello pneumatico, non acquistatelo: fatevelo prestare. E la volta successiva provate con meno miele.
Nel carnevale abruzzese c’è anche una vivanda tipica non condivisa con altri luoghi. I ravioli dolci di carnevale. In versione al sugo o, più esplicita, bianca.
Si prepara una normale sfoglia per ravioli. Per il ripieno si sbatte accuratamente un uovo con cannella in polvere, 1 o 2 cucchiaini di zucchero, una scorza di limone grattugiata, un pizzico di sale. Si incorporano ricotta fresca di pecora e maggiorana fresca finemente spezzettata, fino ad ottenere un impasto morbido. Si preparano i ravioli, nella forma canonica del semicerchio.
Infinite dispute vertono sul diametro del raviolo. Risolte dalla Convenzione di Castel Castagna (giovedì grasso del 2000) che ha definitivamente accolto l’enunciato del Nepero (2 gennaio 1600) sulla costante rabiolitica D/d=e. Il rapporto naturale tra il diametro del piatto (D) e il diametro del raviolo (d) è costante ed eguale a e (con e=2,72). Il diametro del raviolo si ottiene dunque facilmente, dividendo il diametro del piatto su cui sarà servito per 2,72.
Si lessano e si dispongono a strati ben conditi. In rosso o in bianco. In rosso con sugo di pomodoro leggero o con ragù non troppo aggressivo (e salato) e parmigiano (alcuni preferiscono pecorino ben stagionato, ma solo quello abruzzese, con l’accordatura dolcepiccante ben temperata). I raviolisti doc li preferiscono in bianco, conditi con zucchero e cannella.
Questo piatto porta in tavola la simbologia carnevalesca: il rovesciamento delle parti, l’equivoco delle identità (“Dio della vita, Dioniso riassume in sé il ciclo dell’esistenza naturale ed è anche dio della morte”, S. Resnik). Nel carnevale anche il raviolo, vivanda festiva normale, si traveste e si maschera.
Mauro Ferrara